Torna con la memoria a una grossa transizione che hai già vissuto. Scrivi quello che ti aspettavi e come questo corrispondeva o non corrispondeva alla realtà che hai poi incontrato. Racconta di quel momento in cui una ‘perdita’ ti ha aperto la strada a nuove possibilità e ti ha rivelato cose di te che non conoscevi.
IL MIO RACCONTO
Visti con gli occhi della quarantaottenne che sono oggi, quei tre mesi americani sono stati il nucleo denso di uno dei cambiamenti più importanti della mia vita, quello che ha segnato il mio passaggio nell’età adulta.
Ma la ventottenne che ero, di quella metamorfosi percepiva solo il bozzolo che la imprigionava, costringendola – molto lentamente - a cambiare forma e a lasciare andare tutto ciò che era stata fino a quel momento.
Camminavo intorno all’isolato, lasciando entrare nella giacca il vento freddo dell’autunno e valutando a ogni passo la mia situazione. Ero in stallo. E non mi piaceva per niente sentirmi così.
Spostavo rabbiosamente le foglie con i piedi, le mani strette nelle tasche e lo sguardo richiuso verso le scarpe.
Cosa era andato storto? Tutto era andato storto! Niente era come me lo ero immaginato tre mesi prima e ora mi toccava ammettere che il mio tempo era scaduto e che presto, troppo presto per i miei piani, sarei stata su un aereo per rientrare in Italia.
Non ero abituata a fermarmi. Fino a quel momento ero sempre e solo andata avanti, ribaltando le difficoltà in occasioni senza mai fallire un colpo.
Quando a diciotto anni mi ero accorta che la vita familiare mi si era stretta addosso, ero salita su un treno e mi ero allontanata fino a proiettarmi nella parte opposta dello stivale.
Dopo la laurea, quando il mondo del lavoro aveva cominciato a sollevare i primi paletti, li avevo agilmente saltati, avventurandomi in strade non conosciute con la sola guida del mio intuito.
Quando avevo cominciato ad annaspare in un ritmo lavorativo che mi toglieva il sonno di notte e la vita di giorno, avevo semplicemente invertito la direzione, cambiando ancora una volta città e ricominciando a studiare.
Poi qualcosa si è inceppato. Avevo perso prima il fidanzato e poi il lavoro.
Ma non ero preoccupata. Al contrario, ero convinta che la vita mi stesse facendo un regalo, offrendomi l’opportunità di un nuovo ‘salto’ in avanti e, con gli ultimi soldi che mi erano rimasti, avevo prenotato un volo di andata e ritorno per Chicago. L’America mi avrebbe regalato sorprese.
Invece, in quell’inizio d’autunno, mi ritrovavo a osservare le villette che mi scorrevano accanto, tutte uguali, e mi scoprivo profondamente annoiata e delusa dall'esperienza americana. Avevo sognato gli uffici alti e moderni del centro, uno stage da Leo Burnett e invece mi trovavo intrappolata nella monotona ipocrita perfezione di un sobborgo del Michigan.
Una porta, una grossa zucca sullo zerbino, i cestini dei rifiuti ordinatamente disposti, il prato perfettamente tagliato.
E poi ancora: una porta, due grosse zucche sullo zerbino, i rifiuti ordinatamente disposti, un altro prato perfettamente tagliato.
Ancora e ancora.
Io l’America non l’avevo proprio capita. E per questo non riuscivo ad amarla. In quei mesi mi ero pazientemente educata all’osservazione. Osservavo e cercavo di capire. Senza venirne a capo. In uno sterile circolo di passività.
Ecco l’isolato delle case prefabbricate: un guscio esterno di plastica che imita la solidità dei mattoni, una fragile struttura di legno e un cuore di linoleum in offerta speciale che raccoglie la vita di giovani coppie, scandita da tre lavori e animata dalla promessa di un futuro migliore.
Ecco l’isolato delle case in mattoni: solide facciate che si ergono fiere a dichiarare la loro appartenenza a chi il futuro migliore lo sta già vivendo, rincalzandolo attorno alla propria esistenza e a quella dei giovani figli adolescenti.
Ecco la casa del meccanico: grandi spalle e risata rumorosa. Lui è uno dei ricchi del paese e anche l’unico ad avere una piscina. La apriva generosamente ogni sabato pomeriggio, offrendo tregua dall’afa dell’estate alle amiche della moglie e ai compagni del figlio. Io, però, non ci ero mai stata.
La sua casa segnava il confine invisibile della mia libertà condizionata.
Lucia mi aveva preso da parte e mi aveva detto chiaramente: sei nostra ospite e noi abbiamo la responsabilità della tua incolumità. Non puoi allontanarti da sola. Non ti rendi conto di quanto possa essere pericoloso. Io ci ho messo anni a capire che qui tutto può cambiare in un attimo. Basta trovarsi nell’isolato sbagliato.
Sapevo di cosa parlava. All’inizio della mia avventura americana di isolati sbagliati ne avevo attraversati parecchi, proprio mentre girovagavo incosciente, affascinata e audace alla ricerca di un lavoro. Quei giri si erano via via avvolti su stessi come una girandola triste: dagli scintillanti grattacieli di DownTown alle patinate gallerie d’arte di Logan Square fino a spegnersi nella periferia cementizia: lì i grattacieli erano solo profili all’orizzonte. Tanti incontri, tanti complimenti, nessun lavoro.
Così sono passati i miei tre mesi americani: come un fuoco di artificio fallato, di cui mi rimaneva solo una cartuccia vuota e bruciacchiata fra le mani.
Ecco la casa di Bryan e Lucia: il prato perfettamente tagliato, i cestini dei rifiuti ordinatamente disposti, la zucca sullo zerbino, la porta. La oltrepasso per entrare da quella dal retro. Mi soffermo vagamente sorpresa nello scoprire che la zucca, davanti perfetta, dietro è stata completamente svuotata dai rapidi morsi di scoiattoli furbi e insopportabilmente rispettosi delle apparenze.
Una perfetta immagine di ciò che l’America rappresentava per me in quel momento: una zucca luccicante, vuota di sostanza. Ma anche una perfetta rappresentazione del mio stato d’animo: senza polpa.
Che ironia aver pensato che bastasse investire tutti i miei risparmi per scappare dal mio fallimento, solo per viverne un altro dall’altra parte dell’oceano.
Fino a quel momento avevo creduto di avere un ruolo da protagonista nella creazione dei fatti della mia vita: mi bastava immaginarli perché si materializzassero. Guardavo Lucia e mi pareva che questa legge magica trovasse conferma: lei aveva avuto da sempre il sogno di trasferirsi negli Stati Uniti e la forza del suo desiderio le aveva permesso di realizzarlo. Bryan lo aveva incontrato all’università e nel giro di un anno si era trasferita da lui e lo aveva, prevedibilmente, sposato.
E io?
Che forza avevano i miei sogni? Non ne avevano.
I tre mesi erano trascorsi senza che io avessi minimamente influito sugli eventi. In compenso li avevo subiti alla grande. Perciò adesso mi trovato intrappolata in un sobborgo di Chicago, a valutare l’entità del mio fallimento, senza possibilità di mentire a me stessa.
Non ti sei allontanata vero? – mi chiede Bryan dal divano.
Mancava solo un giorno alla partenza e neanche quella mattina mi sarei salvata. Ogni volta che eravamo in casa da soli, Bryan non perdeva occasione per vomitarmi addosso le sue valutazioni sulle reali motivazioni per cui Lucia lo aveva sposato. Si accendeva di rabbia fino a pronunciare, incorniciandola tra i fuck, la sua personale dichiarazione d’indipendenza: non si sarebbe fatto prendere per il culo!
Non ho mai raccontato a Lucia di queste conversazioni. Il giorno in cui avrebbe ottenuto la sua Green Card sarebbe stato anche il giorno in cui Bryan sarebbe uscito di casa, senza tornare.
Me ne andavo con questo ulteriore peso sul cuore.
Completamente ignara del fatto che nello spazio del volo di ritorno avrei coperto il percorso tra la fine di un sogno non vissuto e l’inizio di una vita non sognata.
Quella che mi aspettava da sempre.
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